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Mobbing sul luogo di lavoro: i tratti fondamentali del fenomeno

Scorrendo le raccolte di giurisprudenza e di sentenze relative ai casi pratici che hanno analizzato e scomposto il fenomeno del mobbing, appare abbastanza significativo il fatto che scarseggino le definizioni “positive”, mentre abbondano decisamente le definizioni “negative” che descrivono ciò che esso non è. Ciò dipende dall’estrema difficoltà di individuare i reali casi di persecuzione sul luogo di lavoro e soprattutto di elaborare una definizione del fenomeno che tenga conto della sua rilevanza giuridica. I medici legali spesso sono i primi a sostenere che se la causa “finisce in tribunale” il mobbing era rilevante. Tuttavia, non è affatto facile rilevarne la presenza e accertare il nesso causale tra comportamento del datore di lavoro o dei colleghi e il danno che poi si produce sull’equilibrio psicofisico del lavoratore. In poche parole, molto spesso i lavoratori subiscono per anni vere e proprie persecuzioni, che non sempre sono rilevabili ab externo quanto ai loro effetti devastanti. Ancora più complicati sono i casi di licenziamento del lavoratore per superamento del periodo di comporto causato da assenze legate ad episodi di mobbing, perchè in questi casi è necessario dimostrare specificamente che l’assenza dal luogo di lavoro è legata proprio all’atteggiamento persecutorio subito in azienda.

Per mobbing si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità.

Sui notiziari a Torino sono apparse interviste nel mese di luglio, nelle quali si dava atto che in Europa ci sarebbero addirittura 12 milioni di persone sottoposte a violenze e persecuzioni sul luogo di lavoro, specialmente sotto la forma della violenza psicologica.

Cosa deve fare il lavoratore di fronte ad una situazione del genere? E’ possibile che alcune particolari attività lavorative siano maggiormente a rischio di altre? Quando il lavoratore si accorge realmente di essere il target del mobbing e di subirne le conseguenze? Sono tutte domande perfettamente lecite, cui è forse necessario cercare di dare una risposta. Solitamente il lavoratore che venga licenziato per il superamento del periodo di comporto potrà rivolgersi al sindacato o ad un legale, per impugnare il calcolo dei giorni di assenza. Questo calcolo di per sé non sarebbe impugnabile, essendo un calcolo meramente matematico ed essendo il periodo di comporto previsto specificamente dalla contrattazione collettiva di settore. È, però, vero che spesso il soggetto è assente per malattia, ma questa malattia è provocata proprio dalle condizioni del luogo di lavoro, che non sono idonee. Allo stesso tempo, analogo discorso si instaura per quanto riguarda il risarcimento del danno biologico per violazione del diritto alla salute sul luogo di lavoro. Ovviamente si deve trattare di lesioni medicalmente accertabili e quantificabili. Infine, in alcuni casi è necessario verificare se una patologia pregressa possa escludere il nesso causale rispetto a comportamenti di mobbing tenuti dai colleghi, cioè abbia una portata tale da escludere che poi successivamente il mobbing abbia potuto determinare anche solo un aggravamento della situazione.

Di recente, la sentenza T.A.R. Piemonte Torino Sez. I, Sent., 10-07-2015, n. 1168 si è occupata del caso vissuto da un Vigile del Fuoco e quindi sottoposto alla giurisdizione amministrativa del T.A.R., ma che riassume molto bene il fenomeno del mobbing così come delineato in ambito giurisprudenziale.

Il lavoratore esponeva, infatti, di avere subito molestie persecutorie – presenti anche nell’ambito delle guardie giurate e degli ambienti militarizzati civili – a partire dall’assegnazione al 3 Reggimento Alpini, quando veniva fatto abitualmente oggetto di “trattamenti vessatori e persecutori” (epiteti e locuzioni dispregiative da parte dei superiori gerarchici e dei militari più anziani; trattamenti umilianti e discriminatori durante gli addestramenti e l’attività ginnico-sportiva; assegnazione di incarichi umilianti e demansionanti) finalizzati ad emarginarlo e ad indurlo ad abbandonare la vita militare.

Questo lavoratore, inoltre, raccontava che a causa delle vessazioni e delle umiliazioni subite nel periodo di assegnazione alla 36^ Compagnia del Reggimento Alpini, egli sviluppava una sintomatologia ansiosa produttiva di un danno biologico temporaneo in misura del 14-15%, ricollegabile causalmente alle avverse condizioni ambientali nelle quali era venuto a trovarsi durante il servizio, così come certificato da alcune relazioni psichiatriche di parte prodotte in atti.

Chiedeva, pertanto, il risarcimento del danno non patrimoniale per una cifra considerevole, danno da intendersi ormai secondo il paradigma monodimensionale del danno comprensivo del biologico, del morale e di quello che un tempo si definiva danno esistenziale e comunque del danno derivante dalla violazione di interessi costituzionalmente protetti.

Questa vicenda è abbastanza significativa alla luce del dibattito che negli ultimi anni ha animato l’argomento, soprattutto in relazione alle vessazioni compiute in ambito militare e nelle caserme, dando espressione al fenomeno chiamato con termine giornalistico “nonnismo”. Il tribunale esclude, anzitutto, che possa decidere altra giurisdizione, che non sia quella amministrativa, richiamando peraltro un orientamento assolutamente consolidato e che si esplica in questi principi fondamentali: sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo, perché si tratta di un dipendente statale (militare) in regime di diritto pubblico, perché l’oggetto della domanda principale (concernente il mobbing) trova il suo fondamento nella responsabilità contrattuale della p.a. per inosservanza di una precisa obbligazione del datore di lavoro (art. 2087 c.c.), e perché gli atti e i comportamenti denunciati dal pubblico dipendente, che avrebbero realizzato l’ipotesi di mobbing, sono da ricondurre specificamente al rapporto di servizio” (TAR Lecce, sez. III, 10 settembre 2007, n. 3143; TAR Pescara, 23 marzo 2007, n. 339; TAR Venezia, sez. I, 8 gennaio 2004, n. 2).

Ciò che, però, conta è soprattutto il merito della vicenda, non tanto le questioni procedurali e giurisdizionali.

Quali sono, secondo il tribunale amministrativo, gli elementi essenziali del mobbing?

Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti (cfr. Cassazione civile, sez. lav., 17 febbraio 2009, n. 3785):

– la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente (vedasi su questo punto la giuriusprudenza del tutto analoga in materia di stalking), che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;

– l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;

– il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore;

– la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio.

Quando si parla, in particolare, di comportamenti persecutori che siano sistematici e prolungati nei confronti del dipendente, con uno specifico intento vessatorio, si fa riferimento secondo la giurisprudenza al:

– riscontro di una diffusa ostilità proveniente dall’ambiente di lavoro, posta in essere attraverso una pluralità di condotte frutto di una vera e propria strategia persecutoria, avente di mira l’emarginazione del dipendente dalla struttura organizzativa di cui fa parte;

– non ricorre mobbing, pertanto, qualora le circostanze addotte ed accertate non consentano di individuare, secondo un principio di verosimiglianza, il carattere persecutorio e discriminante del complesso delle condotte compiute;

– in particolare, tale condotta illecita non è ravvisabile quando sia assente la sistematicità degli episodi, ovvero i comportamenti su cui viene basata la pretesa risarcitoria siano riferibili alla normale condotta del datore di lavoro, funzionale all’assetto dell’apparato amministrativo (o imprenditoriale nel caso del lavoro privato), o, infine, quando vi sia una ragionevole ed alternativa spiegazione al comportamento datoriale (Cons. Stato, VI, 6 maggio 2008 n. 2015; T.A.R. Piemonte, sez. I, 8.10.2008 n. 2438).

Sugli altri elementi, invece:

– in ordine all’onere della prova (chi deve dimostrare cosa) da offrirsi da parte del soggetto destinatario di una condotta mobbizzante, quest’ultima deve essere adeguatamente rappresentata con una prospettazione dettagliata dei singoli comportamenti e/o atti che rivelino l’asserito intento persecutorio diretto a emarginare il dipendente, non rilevando mere posizioni divergenti e/o conflittuali, fisiologiche allo svolgimento di un rapporto lavorativo (TAR Lombardia, Milano, sez. I, 11 agosto 2009 n 4581; TAR. Lazio, Roma, III, 14 dicembre 2006 n. 14604);

– in altri termini, il mobbing, proprio perché non può prescindere da un supporto probatorio oggettivo, non può essere correlato in via esclusiva, ma neanche prevalente, al vissuto interiore del soggetto, ovvero all’amplificazione da parte di quest’ultimo delle normali difficoltà che connotano la vita lavorativa di ciascuno (cfr. TAR Lazio, Roma, I, 7.4.2008 n. 2877);

– in particolare, nell’esaminare i casi di preteso mobbing, il giudice deve evitare di assumere acriticamente l’angolo visuale prospettato dal lavoratore che asserisce di esserne vittima: da un lato, infatti, è possibile che i comportamenti del datore di lavoro, pur se oggettivamente sgraditi, non siano tali da provocare significative sofferenze e disagi, se non in personalità dotate di una sensibilità esasperata o addirittura patologica; dall’altro, è possibile che gli atti del datore di lavoro (pur sgraditi) siano di per sé ragionevoli e giustificati in quanto indotti da comportamenti reprensibili dello stesso interessato, ovvero da sue carenze sul piano lavorativo, o da difficoltà caratteriali, etc.. (TAR Perugia, I, 24 settembre 2010 n. 469),

– in altre parole, non si deve sottovalutare l’ipotesi che l’insorgere di un clima di cattivi rapporti umani derivi, almeno in parte, anche da responsabilità dell’interessato; tale ipotesi può, anzi, essere empiricamente convalidata dalla considerazione che diversamente non si spiegherebbe perché solo un determinato individuo percepisca come ostile una situazione che invece i suoi colleghi trovano normale;

– tale cautela di giudizio si impone particolarmente quando l’ambiente di lavoro presenta delle peculiarità, come nel caso delle Amministrazioni militari o gerarchicamente organizzate (come i Corpi di Polizia), caratterizzate per definizione da una severa disciplina e nelle quali non tutti i rapporti possono essere amichevoli, non tutte le aspirazioni possono essere esaudite, non tutti i compiti possono essere piacevoli e non tutte le carenze possono essere tollerate: infatti, in questa situazione un approccio condizionato dalla rappresentazione soggettiva (se non strumentale) fornita dall’interessato può essere quanto mai fuorviante.

Infine, sulla colpa/colpevolezza, in relazione all’imputazione soggettiva dell’onere della prova la giurisprudenza afferma la natura contrattuale della relativa azione risarcitoria, dal momento che quest’ultima rinviene il proprio presupposto nell’espletamento dell’attività lavorativa da parte del soggetto asseritamente leso e nella ritenuta violazione, da parte del datore di lavoro, dell’obbligo su di esso incombente ai sensi dell’art. 2087 c.c..

Cosa è successo nel caso particolare e perchè il tribunale esclude una fattispecie di mobbing?

Il cuore del problema è verificare se i superiori gerarchici intendessero o meno porre in essere, specificamente, un comportamento persecutorio nei confronti del singolo e finalizzato a fargli abbandonare la carriera militare. Circostanza, però, che viene esclusa sulla base di molti elementi, accertati nel corso del giudizio a partire, anche, dalle stesse dichiarazioni del ricorrente, che peraltro di per sè non sono ritenute sufficienti nè in un senso, nè nell’altro per dimostrare o escludere il mobbing:

– la persecuzione, o quanto meno il comportamento sistematico di vessazione, era operato verso tutti i militari;

– la diversa reazione del ricorrente alle “medesime” pratiche a cui erano sottoposti tutti, dimostrarebbe un tratto della personalità pregresso e una interpretazione soggettiva dei fatti;

– queste circostanze sembrano avvalorate dalla perizia, che parla di immaturità del soggetto e assenza di atteggiamento critico;

– manca la prova che le “pratiche” imposte fossero finalizzate tatticamente a far abbandonare la carriera militare, apparendo più verosimile che si tratti di pratiche consolidate di addestramento;

– lo ius corrigendi dei superiori gerarchici può implicare l’uso di coloriture ed iperboli, di toni aspri o polemici, di linguaggio figurato o gergale, purchè tali modalità espressive siano proporzionate e funzionali agli interessi e ai valori che si ritengono compromessi (in altri termini, in ambito militare i trattamenti più pesanti sembrerebbero più giustificabili rispetto alla funzione che essi hanno di costruire la personalità del soldato).

In poche parole, nel caso analizzato mancavano molti elementi del mobbing, perchè non era dimostrato, e il tribunale ne ha preso atto, che il soggetto non avesse forme di ansia pregresse, che avesse interpretato oggettivamente la situazione, che i comportamenti vessatori dei superiori fossero realmente contro il ricorrente, che fossero finalizzati a fargli abbandonare la caserma, che realmente lo stato di ansia che ha colpito il soggetto dipendesse dalla situazione.

Questo caso, verificatosi in Piemonte e sottoposto al tribunale amministrativo di Torino, dimostra quanto labile e complicata sia questa figura giuridica, che non sempre è accertabile concretamente e la cui consistenza giuridica dipende moltissimo dalle circostanze lavorativo-ambientali in cui è collocato il soggetto.

Articolo redatto a Torino da Studio Duchemino il 15 settembre 2015

 

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