La materia dell’anatocismo appare ai più complicatissima e molto tecnica. Tuttavia, è bene sapere che negli ultimi anni, anche a Torino, sono fiorite le cause contro l’anatocismo bancario applicato illegalmente e finalizzate ad ottenere la restituzione dell’indebito versato da aziende e privati verso gli Istituti di Credito.
L’art. 1283 cod. civ. afferma che:
in mancanza di usi contrari, gli interessi scaduti possono produrre interessi solo dal giorno della domanda giudiziale o per effetto di convenzione posteriore alla loro scadenza, e sempre che si tratti di interessi dovuti almeno per sei mesi
Sulla norma, che prevede quindi la cosiddetta capitalizzazione degli interessi, cioè la formazione di interessi legali nuovi non solo sul capitale, ma anche sul capitale incrementato degli interessi precedenti, gli Istituti di Credito avevano innestato una prassi decennale con la quale capitalizzavano con frequenza temporale differente gli interessi a debito e gli interessi a credito verso i clienti. Con il risultato che i medesimi, nei casi di prestiti o scoperti di conto, si trovavano di fronte ad esose richieste di interessi sulla restituazione del capitale, mentre all’opposto, nel caso di interessi a credito, potevano vantare cifre esigue.
Tale prassi è stata oggetto di un ventennio di interventi giurisprudenziali, sui quali non si vuole qui tornare se non per ricordare che a seguito di questo vorticoso circuito che ha interessato da una parte la giurisprudenza di merito e le alte Corti, dall’altra lo Stato con i tentativi legislativi di mettere nel nulla le decisioni giurisprudenziali, si è formato un indirizzo piuttosto stabile.
Una delle decisioni importanti, che dichiararono la nullità delle clausole anatocistiche, fu la sentenza n. 2374 del 1999 della Corte di Cassazione. A seguito di quell’intervento, furono modificati anche i moduli e formulari dei contratti bancari, cercando di adeguarli alla novella nullità dell’anatocismo come praticato in precedenza.
All’interno del dibattito sull’anatocismo, è rimasto aperto, però, un problema, quello relativo al momento da cui decorre il termine di prescrizione dell’azione di restituzione degli interessi indebitamente versati. Si sono fatte carico di questo problema varie sentenze. Oggi interessa verificare cosa abbia affermato il Tribunale di Torino con sentenza 25 marzo 2013.
Senza entrare nel merito della controversia, il punto giuridico cui ormai anche le corti di merito si adeguano è la distinzione tra pagamenti fatti dal cliente per reintegrare la provvista del conto e pagamenti effettuati per saldare un debito. La distinzione prende le mosse da una sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite, quindi dotata di particolare valore ai sensi dell’art. 65 dell’Ordinamento Giudiziario, cioè la n. 24418/2010. Qui si distingue nettamente tra le situazioni in cui il conto è scoperto, cioè le situazioni in cui non esiste fido bancario e il cliente ha il conto “in rosso”, come si suol dire e le situazioni, invece, in cui il cliente titolare di un fido e i pagamenti effettuati servono solo per reintegrare la provvista. Nel primo caso, quello del conto “in rosso”, rientrerebbero peraltro anche le situazioni in cui il fido esiste, ma si è sorpassato in negativo il limite dell’affidamento. Il fido bancario, infatti, sposta solo la linea di tolleranza, sotto la quale il conto si definisce in rosso, cioè scoperto. Quindi, sia nel caso di conto in rosso senza presenza del fido, sia quando il fido c’è, ma è sorpassato il limite di affidamento, in entrambi i casi quindi il pagamento di interessi fatto dal cliente avviene in una cornice “patologica”, in quanto il conto è in rosso. Nel caso, diverso, in cui non si è superato l’affidamento o comunque il conto non è in rosso, i versamenti di interessi avvengono nell’ambito di un contesto fisiologico. E’, quindi, solo in questo secondo caso, fisiologico, che il termine di prescrizione della ripetizione di indebito degli interessi inizia a decorrere dalla chiusura finale del conto, in particolare dall’estinzione del saldo di conto. I singoli pagamenti, quindi, non sono reali pagamenti, ma reintegrazioni della provvista e quindi da essi non scaturisce la decorrenza del termine prescrizionale. Al contrario, invece, nel caso di conto patologicamente in rosso o di superamento del limite del fido, le corresponsioni di interessi hanno funzione solutoria, estinguono cioè un vero e proprio debito patologico che si è formato per sconfinamento. In questo caso, sono reali pagamenti e quindi hanno valore solutorio e dal momento in cui vengono effettuati i singoli pagamenti decorrono i termini di 10 anni della prescrizione.
Il Tribunale di Torino, quindi, applica, adeguandosi a questo principio, tale distinzione.
Ovviamente, tale distinzione non è totalmente esente da critiche, in quanto la qualifica della corresponsione di interessi è pur sempre un trasferimento di denaro dotato di certe caratteristiche “solutorie”. In effetti, l’art. 1188 cod. civ. (in materia di pagamento al creditore) si limita ad affermare che il pagamento va fatto al creditore.
Si può forse sostenere che la corresponsione di interessi anatocistici fatta per reintegrare la provvista non sia un pagamento fatto alla Banca creditrice? L’Istituto di Credito, infatti, è l’unico destinatario delle somme ed è creditore in forza del contratto, in quanto le somme affidate devono comunque essere restituite, affinché il fido possa essere utilizzato nuovamente. Si può obiettare che esse verranno restituite, definitivamente, solo al momento del rientro finale della provvista (momento in cui il cliente restituisce in modo definitivo il debito), mentre durante l’uso del fido le somme possono essere utilizzate liberamente e quindi quando il cliente reintegra tali somme già spese in realtà non sta restituendo denaro alla Banca, ma sta agevolando un proprio diritto derivante dal contratto. Tuttavia, appare per lo meno artificioso distinguere questi “pagamenti” da quelli effettuati per rientrare da un conto scoperto, sostenendo che solo questi ultimi hanno funzione solutoria. La distinzione si annida nel passaggio, per esempio, dall’area rientrante nel fido, all’area corrispondente con uno sconfinamento. Si dice, infatti, che sconfinando dal limite del fido, il cliente non sta più utilizzando somme messe a disposizione, ma sta abusando del diritto della Banca, in quanto si avvale di somme non sue. Tuttavia, il confine è molto labile, in primo luogo perchè anche in questo caso la Banca “permette” questa situazione, quindi non si può non dire consenziente, in secondo luogo perchè in entrambi i casi (uso delle somme regolarmente concesse a fido e uso delle somme fuori fido) il cliente diventa di fatto e di diritto proprietario delle somme.
La funzione solutoria che accompagna il pagamento, richiederebbe l’esistenza di un’obbligazione pregressa, e può considerarsi obbligazione accessoria al fido quella avente ad oggetto l’obbligo di reintegrare la provvista. Peraltro, nell’apertura di credito prevista dall’art. 1842 cod. civ. la Banca rimane proprietaria, in generale, delle somme messe a disposizioni, a meno che non vengano utilizzate dal cliente. In questo caso è impossibile ritenere che il cliente non diventi proprietario delle somme, con relativo obbligo di restituire l’importo corrispondente. Ma proprio questo aspetto determina che nel caso di non sconfinamento del fido, ma di regolare utilizzo delle somme, il cliente diventi proprietario delle somme utilizzate (teoricamente potrebbe anche non usarle) e quindi diventi anche obbligato a restituirne la stessa quantità. E, quindi, appare difficile sostenere che le reintegre che egli effettui successivamente, per costituire nuovamente la somma data in fido, non abbiano valore solutorio del debito generico contratto in precedenza mediante l’utilizzo effettivo delle somme date a fido. In particolare, è difficile distinguere questa situazione, in cui il cliente restituisce una parte delle somme, per utilizzarle nuovamente, da quella in cui restituisce somme non date a fido, ma prelevate ugualmente, causando uno scoperto di conto. In entrambi i casi, seppure con funzione diversa, il pagamento ha comunque effetto solutorio.
Al contrario, si dice che, invece, i pagamenti fatti per reintegrare le provviste non sono pagamenti, perchè non hanno valore solutorio, per cui la prescrizione può decorrere solo dal giorno dell’effettivo pagamento, cioè dal giorno della chiusura del conto. E questo lo si afferma tenendo conto del fatto che a norma dell’art. 1843 cod. civ. solo nell’apertura di credito “semplice” il cliente non può reintegrare la provvista, mentre nell’apertura di credito in conto corrente il cliente può reintegrare la provvista ed in questo caso, la norma afferma, l’accreditato può (e non deve) reintegrare la provvista mediante “successivi versamenti”. Si tratta di un diritto collegato con la natura stessa dell’apertura di credito in conto corrente, non di un obbligo. Per questo motivo, quindi, i ripristini che avvengono tramite “versamenti successivi” (l’utilizzo del termine “versamenti”, invece che “pagamenti”, è espressione del fondamento di questa posizione dottrinale e giurisprudenziale) possono sussistere o meno e certamente non hanno la funzione di saldare, ma quella di rendere ancora possibile l’utilizzo delle somme messe a disposizione. Trattandosi di un diritto di origine contrattuale, il versamento non avrebbe funzione di assolvere ad un obbligo preesistente, ma sarebbe esercizio di un diritto, e quindi non sarebbe un pagamento in senso stretto.
Fermo restando il dibattito, il Tribunale, a Torino, si adegua all’orientamento dominante, proprio perchè consacrato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.
Articolo redatto a Torino da Studio Duchemino, l’11 novembre 2014