Non si può imporre al figlio una relazione familiare col genitore se il figlio si oppone.
E’ quanto stabilito dal Tribunale di Torino con decreto del 4 aprile 2016. La materia è delicata, anzi delicatissima, pertanto bisogna indagare anzitutto circa i principi giuridici che si contrappongono nella vicenda e in casi analoghi. Il primo principio è il diritto del minorenne a coltivare le relazioni familiari, in particolare i legami in cui si esprime il rapporto di filiazione. Il secondo principio è il cosiddetto “interesse del minore”, parametro per decisioni che lo riguardano.
Prima di analizzare questa decisione, è bene ricordare che in questa materia un terzo fattore potrebbe essere determinante: si tratta del fatto che il figlio minorenne viene rappresentato nelle sue decisioni da soggetto capace di intendere e di volere e legalmente capace di rappresentarlo, cioè lo stesso genitore e ciò avviene per legge e secondo la fisiologia delle cose. Inoltre, è anche vero che l’esperienza pratica dimostra un atteggiamento spesso negativo del coniuge collocatario, che nell’ambito del clima di litigiosità della separazione e del divorzio, tende a strumentalizzare un determinato figlio, al fine di realizzare gli interessi processuali.
Fatte queste premesse doverose, considerato che la prassi insegna che questi sono reali problemi che si verificano nelle aule giudiziarie, si deve prendere in considerazione il sopramenzionato decreto, il quale stabilisce nelle conclusioni che il ricorrente – il padre – possa vedere e tenere liberamente con sè la figlia
“secondo il gradimento della minore”.
In pratica, per andare subito alla decisione, il Tribunale subordina all’interesse della minore inteso come il suo mero gradimento la possibilità del padre di vedere la figlia. E questo, nonostante vari mesi, se non anni, di violazione del regime di visite, una violazione peraltro pacifica nel caso di specie e mai messa in discussione.
Non si può negare che si tratta di una decisione discutibile, specialmente in relazione al principio della bigenitorialità effettiva e in rapporto alle esigenze psicologiche del figlio, nella costruzione della sua personalità; infatti i primi commentatori hanno chiarito subito che in questa materia non esiste la possibilità che una decisione costituisca valido precedente giudiziario: le situazioni sono tutte diverse e bisogna tenere conto di ogni singolo fattore in gioco.
Tutto ruota attorno all’interpretazione che si intende dare del concetto di “interesse” del minorenne. In questa vicenda il padre, sospettando probabilmente che la moglie gli “mettesse contro la figlia”, e incorrendo peraltro in alcune carenze di allegazione e dimostrazione processuale, chiedeva in sostanza che fosse un perito tramite consulenza tecnica d’ufficio a stabilire se vi fossero state queste influenze e se quindi vi fossero cause psicologiche nella figlia atte a spiegare questo comportamento di rifiuto verso il genitore, considerato aggressivo. Al di là delle carenze probatorie, resta il fatto che il cuore del problema è questo: è sufficiente la mera volontà del minorenne, in questo caso quindicenne e quindi considerato “maturo”, a giustificare la sospensione del rapporto fattivo di filiazione? Lo diciamo specialmente con riferimento alla premessa che è stata fatta. Il minorenne viene sostituito, a livello di volontà, nella sua attività contrattuale, negli atti giuridici che deve compiere, dal genitore che lo rappresenta. E’ quindi consentito ritenere che tale carenza di capacità attiva possa venire meno nelle fasi patologiche del matrimonio? Un minorenne ritenuto incapace e quindi rappresentato sempre dai genitori nelle ordinarie vicende quotidiane, secondo questa decisione apparirebbe invece molto più lucido e capace qualora i genitori venissero a infrangere il rapporto matrimoniale. Il Tribunale si fonda, per decidere, su principi sanciti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (cfr. sentenza “Santilli c. Italia” del 17.12.2013, Corte EDU, 17 novembre 2015, Bondavalli c.Italia, …), nei quali emerge sempre la necessità di tutelare l’interesse assoluto del minore, che quindi si esprime proprio nel rimettere di fatto a lui la valutazione circa la necessità (e non solo il desiderio) di ricostruire o di conservare il legame di filiazione col genitore.
Si obietta che dovrebbe essere il Tribunale a stabilire questi fatti, anche se nel caso di specie la C.T.U. (consulenza tecnica d’ufficio) è stata ritenuta strumento totalmente inidoneo a valutazioni di questo tipo.
Stupisce, peraltro, e lo si dice in vena polemica, che il Tribunale abbia liquidato le spese considerando il processo come “di relativa semplicità”; in ogni caso, la questione circa l’indagine psicologica del minorenne rimane in sospeso, anche perchè proprio le verità soggettive affermate dal figlio devono essere rilevanti in una decisione del genere, considerato che si fa dipendere la soluzione del caso proprio dall’interesse del minore definito come “mero gradimento“.
Si consideri ancora la circostanza che il Tribunale ha focalizzato l’attenzione sulla carenza probatoria relativa all’incidenza presunta del comportamento della madre sulle mancate visite padre-figlia, senza considerare contemporaneamente il dato di fatto delle mancate visite e la sua ricaduta su una sana bigenitorialità. La scelta di rimettere la decisione al gradimento della figlia, senza indagarne la personalità, viene giustificata dalla corte col dire che la figlia, in sostanza, non può essere costretta a costruire/ricostruire una relazione affettiva, ma al suo gradimento è lasciato di decidere circa i modi e i tempi di questo riavvicinamento. Resta il fatto che si tratta di una decisione che lascia adito a diverse obiezioni.
Articolo redatto a Torino da Studio Duchemino il 30 maggio 2016