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Amministrazione di sostegno: criticità e prospettive di riforma

ALCUNE APORIE NELLA DISCIPLINA SULL’AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO (E DELLA GIURISPRUDENZA): PROSPETTIVE DE JURE CONDENDO

A volte all’interno della disciplina di un determinato istituto anche assai utilizzato nella prassi possono trovarsi lacune assai significative, le quali, tuttavia, proprio nella prassi giudiziaria, possono portare a conseguenze al limite dell’aberrazione.

Una di tali situazioni si rinviene nel possibile “intreccio processuale” che può verificarsi fra amministrazione di sostegno, da un lato, e interdizione, dall’altro.

Prima di approfondire la questione, appare opportuno rapidamente ricapitolare lo “stato dell’arte” dell’elaborazione giurisprudenziale nel rapporto fra amministrazione di sostegno, inabilitazione e interdizione.

La giurisprudenza di legittimità ha precidato in proposito che l’amministrazione di sostegno si distingue dai due istituti “tradizionali” per la sua particolare “elasticità”, in quanto – a differenza dei questi ultimi – il suo campo di applicazione

va individuato con riguardo non già al diverso, e meno intenso, grado di infermità o di impossibilità di attendere ai propri interessi del soggetto carente di autonomia, ma piuttosto alla maggiore capacità di tale strumento di adeguarsi alle esigenze di detto soggetto, in relazione alla sua flessibilità ed alla maggiore agilità della relativa procedura applicativa” essendo rimessa al giudice di merito la valutazione sulla congruità della misura a tali esigenze, “tenuto conto essenzialmente del tipo di attività che deve essere compiuta per conto del beneficiario, e considerate anche la gravità e la durata della malattia, ovvero la natura e la durata dell’impedimento, nonchè tutte le altre circostanze caratterizzanti la fattispecie” (Cass. Civ., n. 3584/2006).

Il problema assume particolare delicatezza, come è evidente, nel caso in cui si tratti di persona affetta da disturbi mentali, data la maggiore “concorrenza” che, sotto questo profilo, l’amministrazione di sostegno può conoscere rispetto (specialmente) all’interdizione, nonché la maggiore probabilità di ricorso alla prima.

Secondo la Corte di Cassazione una simile ipotesi non pregiudica affatto la scelta per l’amministrazione di sostegno, atteso che i principi introdotti dalla L. n. 6/2004 sono proprio volti ad incidere il meno possibile sulla capacità di agire del soggetto, attraverso l’assunzione di provvedimenti di sostegno temporaneo o permanente (Cass. Civ., n.4866/2010).

Insomma, come anche rilevato dalla dottrina,

“L’equazione perdita completa della capacità di esprimere la propria cosciente volontà = interdizione non può più essere accolta, ben potendosi procedere con la misura del sostegno non soltanto nei casi di grave compromissione delle capacità psico-fisiche, ma anche in quelli in cui si accerti una perdita completa di autonomia del soggetto, e anche nei casi border line di perdita completa di coscienza (ad es.coma vegetativo traumatico, o patologia degenerativa delle facoltà intellettive in stadio avanzato)” (FAROLFI, 2014).

In effetti, la giurisprudenza pare essersi spinta più in là e ritenere che, data la “elasticità” dell’istituto di cui alla L. n. 6/2004, il decreto che dispone l’amministrazione di sostegno ben può prevedere incisioni nella sfera giuridica dell’interessato analoghe a quelle proprie delle pronunce di interdizione e di inabilitazione (cfr. Cass. Civ. n. 25366/2006).

In altre parole, l’ambito operativo dell’amministrazione di sostegno risulterebbe potenzialmente tanto ampio, da “erodere” il perimetro tradizionale dell’interdizione, la quale sembrerebbe così destinata ad un’applicazione meramente residuale, ed alla sostanziale elisione, di fatto, dell’inabilitazione.

La giurisprudenza di merito, ciononostante, sembra meno propensa ad autorizzare l’applicazione della misura di cui all’art. 404 c.c. per soggetti che presentino significative minorazioni fisiche e (soprattutto) psichiche. Interessante è, tuttavia, la conseguenza dal punto di vista processuale che implica tale orientamento, allorché – per venire alla questione accennata in esordio – il Giudice Tutelare, in sede di ascolto dell’amministrando, ritenga che quest’ultimo versi in condizioni di infermità psichica tali da non considerare sufficiente il ricorso all’istituto di cui agli artt. 404 ss. c.c., ritenendo invece più consona l’applicazione dell’inabilitazione o, più probabilmente, dell’interdizione.

L’interesse sorge poiché né il codice civile, né quello di rito (come già rilevato da CHIARLONI, 2005) stabiliscono quali debbano essere gli adempimenti del Giudice in tale circostanza.

Problema che risulta peraltro acuito dal fatto che, come è noto, i due tipi di giudizi sono sottoposti alla cognizione di due diversi uffici giurisdizionali ovvero, rispettivamente, il Giudice tutelare (art. 404 c.c.) ed il Tribunale in composizione collegiale (art. 50-bis c.p.c.) e ciò rende naturalmente impossibile una “soluzione interna” allo stesso giudice per mezzo di una sorta di riqualificazione giuridica della domanda (peraltro problematica nel senso che verrà approfondito infra).

Non si rinviene, in altre parole, una norma paragonabile all’art. 418, c. 3, c.c., che regola l’inversa ipotesi per la quale, se nel corso del giudizio di interdizione o di inabilitazione appare più opportuno applicare l’amministrazione di sostegno, è prevista la trasmissione del procedimento al giudice tutelare.

L’unica ipotesi avvicinabile al caso di specie è rappresentata dall’art. 413, c. 3, c.c., il quale contempla il passaggio dall’amministrazione di sostegno all’interdizione allorché la prima “si sia rivelata inidonea a realizzare la piena tutela del beneficiario. In tale ipotesi, se ritiene che si debba promuovere giudizio di interdizione o di inabilitazione, ne informa il pubblico ministero, affinché vi provveda”. Tale disposizione non appare tuttavia applicabile al caso sopra esposto, dal momento che, come si evince dal dato letterale, essa andrebbe applicata solamente dopo che l’amministrazione di sostegno stessa sia stata già autorizzata e, nella sua concreta attuazione, prolungata per un certo periodo, si sia rivelata inadeguata (LUPOI, 2009) ed essa appare piuttosto porsi in posizione di specularità rispetto all’art. 429 c.c.. In effetti, il giudizio di “inidoneità” previsto dalla norma presuppone necessariamente la pre-esistenza di un’applicazione dell’istituto, che abbia condotto a tale valutazione; ciò che non accade se nemmeno si accede a questo provvedimento.

Una soluzione parzialmente condivisibile risulta quella assunta da Trib. Campobasso 2005 e, più recentemente, da Trib. Torino 2015, che – per l’appunto, ritenendo (contrariamente alla Cassazione) non applicabile l’istituto dell’amministrazione di sostegno per questi soggetti le cui “incapacità” impediscono loro la cura ottimale della propria persona o dei propri interessi, a vantaggio – mediante applicazione analogica del citato art. 413 c.c. ha disposto nel caso in cui vada ritenuto opportuno procedere ad interdire il soggetto la trasmissione degli atti al Pubblico Ministero.

Contrariamente all’orientamento subalpino – il quale risulta propenso al rigetto tout court dell’istanza, senza disporre provvedimenti temporanei – quello molisano dispone, contestualmente, alla trasmissione degli atti al PM, la nomina di un amministratore di sostegno provvisorio e l’adozione di provvedimenti più opportuni per la cura dell’infermo e del suo patrimonio ex art. 405, c. 4 c.c.

Dalla decisione del Giudice molisano sembrerebbe in sostanza potersi derivare il principio secondo il quale l’amministrazione di sostegno debba essere necessariamente disposta, sia pure in via provvisoria, in attesa della sentenza di interdizione (salva naturalmente l’ipotesi di rigetto, qualora non sussistano neppure i presupposti di cui all’art. 404 c.c.).

Sotto questo profilo, tale orientamento si dimostra maggiormente condivisibile rispetto a quello sostanzialmente “pilatesco”, ed in ultima analisi contraddittorio, di quello torinese che, per non volere sottoporre l’infermo ad una misura ritenuta insufficiente … di fatto lo lascia privo, per un periodo indeterminato, di qualsiasi sostegno giuridico alla cura dei propri interessi e della propria persona. Almeno, ciò è quanto accade sotto la Mole. Resterebbe da dire, ovviamente, che non è nemmeno possibile accedere a questa soluzione, considerato che il percorso battuto dal P.M. finisce per implicare un ruolo dell’Assistente sociale che appare destituito di ogni necessità nella maggior parte delle ipotesi in cui è stato introdotto il giudizio di amministrazione di sostegno.

Entrambe le soluzioni, producono infatti un ulteriore problema che rischia di essere peggiore di quello iniziale.

Nel momento in cui vengono rimessi gli atti al P.M. affinché avvii di propria iniziativa la domanda di interdizione, infatti, la situazione – dal momento che si tratta di un procedimento a giurisdizione oggettiva – sostanzialmente “sfugge di mano” all’iniziale promotore dell’amministratore di sostegno – di solito i figli dell’amministrando – che, come dispone lo stesso art. 406 c.p., può essere lo stesso beneficiario.

Ora, nel procedimento di interdizione non è prevista una norma, quale l’art. 408 c.c. riferito all’amministrazione di sostegno, che per un verso consente all’istante di designare il proprio tutore e, per altro verso, indica al Giudice un ordine di preferenza nella scelta del soggetto, nell’ambito della cerchia familiare.

Si può dire che l’assenza di una simile previsione vada a tutela dell’interdicendo contro eventuali intenti “rapaci” che possono sussistere in taluni prossimi congiunti, ma si può obiettare osservando che il decreto che apre l’amministrazione di sostegno – stando alla richiamata giurisprudenza di legittimità – ben può attribuire all’amministratore una capacità di disposizione del patrimonio del beneficiario assolutamente paragonabile. In ogni caso, ciò che rileva è che in tal modo una “innocua” domanda di amministrazione di sostegno, presentata dai familiari più stretti di una persona significativamente “debole” onde amministrarne il patrimonio – anche urgentemente – al fine di provvedere alla sua sistemazione presso una casa di cura o presso una casa di riposo, subisca una “mutazione genetica” che li esautora e che può condurre alla nomina, quale tutore, di soggetti istituzionali quali il Servizio Sociale e/o il consueto funzionario comunale, che nulla hanno a che vedere con la famiglia.

Una simile conclusione contrasta, come si può vedere, con il principio del minor sacrificio della sfera soggettiva di colui che comincia come “benficiando” di un’amministrazione di sostegno e rischia di ritrovarsi interdetto e “tutelato” da soggetti estranei, il tutto a causa di una falla legislativa.

Va nondimeno ritenuto – e auspicato – che, in sede di udienza ex art. 714 c.p.c., il Giudice Istruttore, in tali casi, sia orientato a nominare quale tutore il soggetto inizialmente “offertosi” quale amministratore di sostegno oppure che adotti i criteri preferenziali di cui all’at. 408 c.c.

In una prospettiva de jure condendo, più in generale, parrebbe piuttosto opportuno ripensare le categorie dell’amministrazione di sostegno, dell’interdizione e dell’inabilitazione nel segno di una sintesi fra questi istituti, sembrando invero più adeguato concepire un unico istituto di rappresentanza legale per soggetti variamente incapaci di provvedere compiutamente alla propria sfera giuridica. Alla luce del richiamato orientamento della Cassazione, si potrebbe infatti concepire un unico provvedimento dai contenuti “elastici” – qual è il decreto ex art. 405 c.c. – che, in relazione alla concreta condizione del singolo soggetto esaminato, consenta al giudice (che sembrerebbe opportuno immaginare essere il Tribunale collegiale, conformermente al disposto dell’art. 50 bis c.p.c.) di modulare il regime coprendo l’intero spettro delle soluzioni attualmente suddivise fra i tre istituti.

Articolo redatto a Torino da Studio Duchemino il 7 novembre 2015

 

 

 

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